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Categorie Antiproibizionismo Cannabusiness

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Cannabis light prodotto dell’anno, solo la politica non se ne accorge

Il mercato della cannabis al CBD e dei suoi derivati, con più di 2000 negozi e 40 milioni di fatturato nel 2018 è esploso, solo che nel 2019, se non si regola il limbo giuridico in cui ci troviamo, l’intero settore rischia di morire.

17 dicembre 2018. Forlì. Circa 50 agenti della Squadra Mobile fanno il giro di tutti i 16 negozi della provincia di Forlì e Cesena che vendono prodotti derivati dalla cosiddetta canapa “light”. Alla fine della “retata”, nessun negozio viene chiuso, ma 15 persone vengono accusate di detenzione e vendita di sostanze stupefacenti.

Alla fine della giornata, sul tavolo degli inquirenti oltre ad esserci i 73 chili di infiorescenze di canapa sequestrati durante l’operazione insieme ad altri prodotti giudicati non idonei al commercio, per un valore totale di circa un milione di euro, c’è anche un piccolo paradosso, anche che se forse non si vede. Non è affatto detto infatti che quei 73 chili sequestrati siano effettivamente 73 chili di sostanze stupefacenti.

Il paradosso è presto spiegato: quelle infiorescenze, che effettivamente sono di cannabis, al livello chimico sono ricche di un principio attivo chiamato CBD, ma sono sprovviste, o quasi, del suo più celebre e vituperato cugino, il THC, che è il principio attivo tipico della marijuana, quello che ha gli effetti psicotropi e che, per la legge italiana, determina, se in quantità superiori allo 0,5 per cento di concentrazione (circa 500 milligrami ogni chilo), l’illegalità della pianta.

Al di là di quei 73 chili sequestrati, che la procura analizzerà per capire che principi attivi sono presenti e in che concentrazione, quei 16 negozi passati in rassegna dalla polizia di Forlì sono solo una piccola parte di una gigantesca rete di nuovi commerci che nell’ultimo anno sono nati come funghi su tutto il territorio nazionale. Almeno 2000, secondo l’AICAL, l’Associazione Italiana Cannabis Light, ma in continua crescita, a testimonianza di un settore che nel 2018 ha fatto veramente il botto.

«Solo la mia società, i negozi e l’indotto che genera», rivela Riccardo Ricci, cofondatore di Cbweed e di stanza proprio a Forlì, «posso stimare che abbiamo creato almeno un centinaio di posti di lavoro. I dati forniti dall’AICAL sul valore del mercato della cannabis legale e di tutta la gamma di prodotti che da quella derivano — decine nel settore alimentare e cosmetico — indicano come giro d’affari una cifra superiore ai 40 milioni di euro per il 2018. E anche qui, come per i negozi e come per il numero di nuovi posti di lavoro, le cifre sono tutte in crescita e ci si aspetta, per il 2019, che possa addirittura raddoppiare.

Ma che diavolo è questa cannabis light? È cannabis, esattamente come quella non light, solo rispetto all’altra, di stupefacente ha soltanto l’effetto dirompente sul mercato, la sua velocità e capillarità di espansione e le sue applicazioni medico-alimentari, tanto che in ogni città, spesso in ogni quartiere (e nelle grandi città addirittura in ogni strada) stanno nascendo questi negozietti, spesso da una sola vetrina, che oltre alle infiorescenze vendono tutta una serie di prodotti che dalla cannabis legale derivano, tutti con un livello di THC inferiore allo 0,5%, ma ricchi invece di CBD, una sostanza le cui applicazioni svariano dal campo medico a quello alimentare.

Ma se questa cannabis non ha il principio attivo che la rende illegale davanti alla legge italiana, perché i sequestri? Ecco, questo è il nocciolo della questione, un nocciolo che i consumatori, ma soprattutto i produttori come Riccardo Ricci, sperano sia ben presto superato dalla politica.

Sì, perché il problema è che tutto il settore si trova in un formidabile quanto grottesco limbo giuridico, letteralmente appeso su un baratro, quello che c’è tra la legge numero 242 del 2 dicembre 2016, per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa e il testo unico sugli stupefacenti, il numero 309 del 1990, che vieta il consumo di qualsiasi sostanza stupefacente, quanto meno quelle che la Repubblica Italiana ha deciso essere stupefacenti, e ovviamente dalla lista sono esclusi alcol, tabacchi e zucchero.

La legge del 2016 consente la coltivazione ai fini di ricerca, di studio, di vivaismo, di produzione di tessuti e di produzioni alimentari, limitando le categorie di piante coltivabili a una serie di 53 varietà registrate, scelte dall’Unione Europa e rigorosamente al di sotto dello 0,6 per cento di THC (consentito fino allo 0,2 e tollerato fino allo 0,5 per motivi climatici), solo che non prevede il consumo a scopi ricreativi — il fumarsela, per intenderci. «Una situazione da risolvere al più presto», secondo Ricci e secondo tutti gli imprenditori che fanno parte del settore, «perché si rischia di mandare in fumo sul serio un settore in enorme sviluppo, e una di prodotti che sia a livello medico che a livello cosmetico o alimentare, sono una rivoluzione.

Dopo un anno formidabile, il numero di negozi, lavoratori e imprese continuano a salire, e mentre alcune procure iniziano a colpire il settore, secondo l’AICAL il 2019 inizia con una vera e propria corsa contro il tempo: che la politica si svegli e si decida a legiferare su un settore che potrebbe essere un volano incredibile sia a livello economico che sociale, e su un prodotto, il CBD, che non ha niente a che fare con la droga e che può essere un vero volano per l’economia di tutto il Paese.

Fonte: Linkiesta

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