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Una sentenza della Corte di Cassazione ha sollevato dubbi significativi sulla norma che introduce l’uso dei test salivari antidroga per verificare l’idoneità alla guida. La decisione della Cassazione mette in discussione l’impianto normativo, sottolineando come la sola positività a tali test non sia sufficiente per dimostrare l’effettiva alterazione psicofisica del conducente al momento del controllo.
Come noto, la riforma recentemente approvata ha introdotto l’adozione dei test salivari come strumento di primo accertamento per identificare la presenza di droghe nell’organismo del conducente. Tuttavia, sin dalla loro introduzione, i test salivari hanno suscitato perplessità tra gli esperti. Questi test, infatti, rilevano esclusivamente la presenza di sostanze nel corpo, senza però fornire un’indicazione sul livello di alterazione del conducente. A differenza dell’alcol, per il quale esistono soglie legali ben definite, le droghe possono rimanere rilevabili nell’organismo anche a distanza di giorni dal loro consumo, senza che vi sia una reale compromissione delle capacità psicofisiche.
Ne avevamo parlato in un articolo precedente:
Una delle principali obiezioni riguarda la possibilità di falsi positivi, che potrebbero coinvolgere anche individui che assumono farmaci prescritti per patologie specifiche, sollevando una questione delicata, che riguarda il diritto alla salute e la necessità di garantire equità nei controlli stradali.
L’altro aspetto critico è la mancanza di un metodo di verifica immediato che permetta di distinguere tra un consumo pregresso e uno recente.
La Corte di Cassazione ha depositato una sentenza lo scorso 17 gennaio, con la quale ha stabilito che la sola positività a un test salivare non può costituire prova sufficiente per sanzionare un conducente per guida sotto effetto di sostanze stupefacenti.
I giudici non ritengono sufficiente il test delle urine e ancora meno quello salivare previsto dalle nuove norme, in quanto non sono considerati attendibili. Per dimostrare la positività, i giudici affermano che solo con un esame del sangue è possibile accertare l’assunzione della sostanza stupefacente. Ma non solo!
La sentenza infatti mette nero su bianco che è necessario anche un controllo globale del comportamento del conducente. Gli agenti delle forze dell’ordine devono considerare anche fattori come la coordinazione dei movimenti, l’eloquio e lo stato emotivo della persona (ad esempio, se è visibilmente agitata o euforica), per accertarsi che la persona non stia guidando sotto l’effetto di sostanze che ne compromettono la capacità di controllo del veicolo.
“A rilevare non è la condotta di chi guida dopo aver assunto sostanze stupefacenti, bensì quella di colui che guida in stato d’alterazione psicofisica determinato da tale assunzione. Ne deriva che la mera alterazione, tale da incidere sull’attenzione e sulla velocità di reazione dell’assuntore, di per sé non è rilevante, se non se ne dimostra l’origine; l’accertamento richiesto, quindi, deve riguardare sia l’avvenuta assunzione, sia le caratteristiche proprie dell’alterazione»
Questo principio, peraltro, era già stato affermato in precedenti pronunce giurisprudenziali e trova fondamento nel principio di colpevolezza, secondo cui una sanzione deve essere applicata solo se è possibile accertare un’effettiva condizione di pericolo per la circolazione stradale. La sentenza potrebbe dunque avere ripercussioni significative sull’applicazione della riforma e potrebbe portare a una revisione dei protocolli di controllo.
Alla luce della decisione della Cassazione, si apre ora un dibattito sulle possibili modifiche all’attuale normativa. Nel frattempo, le forze dell’ordine dovranno adeguarsi alla nuova interpretazione della legge e modulare i controlli in modo da rispettare le indicazioni della Cassazione.
Ciò potrebbe tradursi in una maggiore cautela nell’applicazione delle sanzioni e in un incremento dei ricorsi da parte dei conducenti che si ritengono ingiustamente penalizzati.
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